ALFA ROMEO ALFETTA 1.8

Laudoracing 1:18

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    ALFA ROMEO ALFETTA 1.8
    1/18 LAUDORACING(LM097B)

    Year/Anno : 1972
    Color : Giallo Piper
    Materiale: Resin/Resina
    My rating/Mio Voto : 86/100
    Original price/Prezzo : 99 Euro
    Limited: 200 units

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    L'Alfa Romeo Alfetta è una berlina sportiva di classe medio-alta prodotta tra il 1972 e il 1984 dalla casa milanese Alfa Romeo nello stabilimento di Arese.
    Alla fine degli anni sessanta, in Alfa, era evidente che le linee delle 1750 e Giulia - pur longeve - non avrebbero retto l'impatto con le nuove tendenze stilistiche; d'altro canto era necessario introdurre novità che non si allontanassero troppo dai gusti della clientela già fidelizzata. In un primo tempo si decise di rinnovare la 1750 con aggiornamenti estetici ed una nuova motorizzazione più europea che, nel 1971, veniva presentata con la denominazione 2000. Nel contempo si dette anche il via alla realizzazione del progetto 116.
    Il Centro Stile Alfa, guidato da Giuseppe Scarnati, disegnò così una vettura intermedia tra la 2000 e la Giulia, pronta a sostituire il primo modello che avesse perso troppo terreno sul mercato. Linee tese e spigolose e una particolare attenzione allo spazio interno, per vestire uno schema tradizionale e prestigioso da berlina sportiva, settore in cui le Alfa Romeo, all'epoca, erano considerate all'avanguardia.

    Occorre anche citare il pur marginale contributo di Giorgetto Giugiaro che, incaricato nel 1968 di progettare la nuova Alfa coupé, stava terminando gli esecutivi di quella che sarebbe poi diventata l'Alfetta GT.

    Al fine di tranquillizzare la clientela circa l'abbandono dello schema tradizionale per il moderno transaxle, si fece ricorso alla citazione delle glorie sportive Alfa Romeo scegliendo il nome di Alfetta e così ufficializzando il nomignolo con cui i tifosi avevano soprannominato le Alfa Romeo 158 e 159 da Formula 1 che vinsero il campionato mondiale nel 1950 e 1951 con Nino Farina e Juan Manuel Fangio.

    Il nuovo modello si dimostrò subito di ottimo livello, sia per estetica, sia per prestazioni, ma le polemiche infuriarono ugualmente, dividendo gli alfisti. Infatti, pur guadagnando enormemente in tenuta e stabilità, a causa dei più complessi leveraggi di comando del cambio, l'Alfetta aveva perduto parzialmente la dolcezza d'innesto dei rapporti, rispetto ai modelli precedenti.

    Parallelamente al nuovo modello, l'azienda decise di lasciare in produzione anche la 2000 e la Giulia fino al 1977, causando - in parte - una serie di fenomeni di parziale concorrenza interna.

    La nuova Alfetta avrebbe dovuto essere la vedette del Salone dell'automobile di Torino dell'ottobre 1971 e già in agosto erano state diffuse le caratteristiche tecniche alla stampa specializzata. Tuttavia, la scelta di dare il maggior risalto alla contemporanea Alfasud, il timore di oscurare la 2000 e una serie di scioperi nella fabbrica di Arese, fecero slittare la presentazione di oltre sei mesi.

    Presentata a Trieste il 17 maggio 1972, l'Alfetta fu senza dubbio una delle Alfa Romeo più innovative del dopoguerra. Essa infatti, pur rispondendo a tutti i canoni tipici del marchio, rappresentava un deciso passo avanti rispetto ai modelli precedenti. La sua linea, che avrebbe ispirato a lungo l'evoluzione di gamma, segnò un punto di rottura con il precedente stile Alfa Romeo. Rimase sul mercato fino al 1984 quando venne sostituita dalla 90.

    La linea dell'Alfetta è squadrata, scevra da venature e pieghe, moderna per l'epoca ma classicizzata dal frontale tipicamente Alfa Romeo con i doppi fari tondi in cornici cromate e lo scudetto in posizione centrale. Guardavano alla tradizione i paraurti a lama in acciaio inossidabile, le tre barre cromate sulla calandra e le maniglie delle portiere. Così se la parte anteriore era bassa, raccolta e relativamente slanciata la parte posteriore presentava la novità più evidente: la coda alta che oltre a garantire vantaggi sul piano aerodinamico offriva una capacità di carico quasi da record per la categoria.
    All'interno non ci si era discostati dalla tradizionale formula Alfa Romeo. La plancia con il monogramma “Alfetta” in corsivo e gli inserti tipo legno era completata da un quadro strumenti molto fornito e soprattutto ben leggibile che comprendeva oltre al tachimetro e al contagiri gli indicatori di livello carburante, temperatura acqua e pressione lubrificante oltre a una completa dotazione di spie. Il posto guida, ben realizzato, favoriva la guida a braccia distese e prevedeva anche la regolazione in altezza del volante. L'abitacolo era nel complesso accogliente e spazioso; l'assenza del cambio all'uscita del motore infatti aveva permesso di snellire abbastanza la parte anteriore del tunnel centrale tanto da dare una notevole sensazione di spazio ai posti anteriori. Quelli posteriori pur disponendo invece di molto spazio in senso longitudinale erano inficiati dall'ingombrante presenza del cambio posteriore che aveva costretto i progettisti dell'Alfa Romeo a gonfiare il tunnel centrale tanto da compromettere il comfort del passeggero posteriore seduto al centro.
    Il portabagagli seppur di generose dimensioni non era sfruttabile a pieno per via della soglia di carico molto alta che poteva costringere a fastidiosi sollevamenti e tendeva ad aumentare il pericolo di danneggiare la carrozzeria negli usi più intensi. Sotto il piano di carico trovavano posto la ruota di scorta e il serbatoio carburante di 50 litri. L'ampia vetratura garantiva una buona visuale in ogni direzione e solo in retromarcia la coda spiovente necessitava di una buona dose di pratica prima di poterne valutare correttamente l'ingombro.

    La dotazione, seppur non eccezionale, era buona per l'epoca e sarebbe stata arricchita con il passare delle generazioni sino ad arrivare alla ricca ed elaborata Quadrifoglio oro del 1983. Nel 1972 il prezzo di listino era di L. 2.441.600, cui occorreva aggiungere L. 26.880 per l'interno in texalfa, L. 19.040 per il lunotto termico, L. 16.240 per gli appoggiatesta regolabili e L. 106.400 per la finizione metallizzata, unici accessori disponibili.

    Quello che lasciava a desiderare, come spesso era accaduto nella storia dell'Alfa, erano le finiture, solo approssimative e non esenti da difetti di lavorazione e caratterizzate da materiali di scarsa qualità.
    Il classico bialbero Alfa Romeo di 1779 cm³ derivava direttamente da quello della 1750 modificato nella forma dei collettori di scarico e della coppa dell'olio per permettere di elevarne la potenza a 122 CV DIN. Costruito completamente in lega di alluminio aveva le canne dei cilindri di ghisa riportate e sfilabili. I due alberi a camme in testa mossi da una doppia catena silenziosa anteriore, che garantiva un'eccellente affidabilità e durata, azionavano direttamente le valvole attraverso i bicchierini in bagno d'olio ad essi interposti, il che se da un lato rispondeva a esigenze di affidabilità e sportività, dall'altro rendeva la regolazione del gioco un'operazione lunga e costosa, anche se meno frequente. Infatti qui i piattelli di spessore risultano posizionati all'interno dei bicchierini (a differenza del Motore bialbero FIAT che li ha visibili e a contatto con le camme), per cui la sostituzione implica lo smontaggio preliminare degli alberi. Le due valvole erano inclinate a 80° per formare una camera di combustione emisferica ad alto rendimento, e quelle di scarico erano raffreddate dalla presenza nello stelo di sodio che ne diminuiva la temperatura durante l'uso passando dallo stato solido a quello liquido e garantendo così una più lunga durata delle stesse.

    Il tutto era raffreddato dal liquido contenuto nel circuito sigillato provvisto di radiatore con la ventola per la prima volta mossa da motore elettrico azionato da un interruttore termostatico, anziché direttamente dal motore come sulla 1750. L'alimentazione era assicurata da due carburatori orizzontali doppio corpo Weber 40 DCOE/32 riforniti di carburante dalla pompa meccanica. Vennero allestite anche vetture destinate al mercato d'oltreoceano provviste di iniezione meccanica Spica.

    La novità vera fu l'inedito posizionamento del cambio a 5 marce al retrotreno in blocco con differenziale e frizione azionata idraulicamente (soluzione sostenuta da Giuseppe Busso), allo scopo di restituire un'ottimale distribuzione che migliorasse la tenuta di strada, rispetto ai precedenti modelli derivati dalla Giulia. Inedito era anche lo schema delle sospensioni posteriori che adottavano per la prima volta su una vettura stradale della Casa un raffinato ponte De Dion costituito da un traliccio di tubi d'acciaio triangolare con il vertice imperniato anteriormente che mirava alla riduzione delle masse non sospese in modo da garantire una maggiore motricità alle ruote posteriori. A tale scopo i freni a disco posteriori vennero spostati dalle ruote alla flangia dei semiassi sul differenziale. Su vetture di serie, fino ad allora, tali soluzioni tecniche erano state riservate a modelli di classe elevata come la Lancia Aurelia degli anni cinquanta della quale l'Alfetta riprende il sofisticato schema tecnico transaxle con cambio montato in blocco al differenziale posteriore per meglio ripartire e distribuire le masse sugli assi della vettura nello schema 50/50.
    Le sospensioni anteriori indipendenti seguivano lo schema a bracci trasversali oscillanti e usavano come elementi elastici delle barre di torsione. Il tutto era completato da ammortizzatori idraulici e barre stabilizzatrici sia sull'avantreno che sul retrotreno.

    I freni erano tutti a disco con comando idraulico a doppio circuito, servofreno a depressione e limitatore di frenata sul retrotreno. Il freno a mano agiva sulle ruote posteriori.
    Il comportamento su strada dell'Alfetta continuava la tradizione della casa con doti dinamiche sportiveggianti. La tenuta di strada era eccellente anche se caratterizzata da un certo rollio. Il comportamento in curva era neutro anche alle alte velocità, proprio in virtù della perfetta distribuzione dei pesi. Se portata al limite l'Alfetta presentava un sensibile sottosterzo iniziale che ne rendeva la guida facile anche a piloti non troppo esperti. Solo esagerando con l'acceleratore o nelle curve molto strette, dove si sentiva il bisogno di un differenziale autobloccante, il retrotreno poteva riservare qualche sorpresa. Il motore, pur avendo guadagnato 4 CV rispetto alla versione montata sulla 1750, si dimostrò grintoso agli alti ed elastico ai bassi e medi regimi, permettendo sia una guida sportiva che una rilassata con un occhio al comfort e ai consumi.

    Nelle prove su strada l'Alfetta si dimostrò capace di raggiungere i 184 km/h di velocità massima e con un'accelerazione da 0 a 100 km/h in 9,8 secondi si posizionò ai vertici della sua categoria. Il suo tallone d'Achille stava invece nelle caratteristiche del cambio che poco si addicevano al tipo di auto. Esso era infatti caratterizzato da una manovrabilità lenta e imprecisa specialmente in scalata per le prime due marce, dovuta più ai vari rinvii di comando che al disegno degli organi meccanici, molto simile al cambio della serie Giulia. Il posizionamento, poi, faceva sì che la carrozzeria amplificasse la rumorosità degli ingranaggi. Anche la frizione non era esente da critiche per il suo brusco innesto, mentre i giunti in gomma dell'albero di trasmissione hanno sempre sofferto di breve vita, nonostante le numerose modifiche a cui furono sottoposti nell'arco della produzione. L'impianto frenante aveva un'ottima potenza, una buona modulabilità ed era insensibile alla fatica anche se era caratterizzato da una certa durezza di azionamento, aspetto che piaceva agli alfisti appassionati perché permetteva di dosare con precisione la pressione sul pedale. Lo sterzo, per la prima volta a cremagliera su un'Alfa, era molto preciso e pronto.
     
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